giovedì 28 giugno 2018

Dagon (luglio1917)

Il protagonista scrive di getto alcuni appunti sul suo stato mentale (ha finito tra l'altro la propria morfina, «la sola [cosa] che renda la [sua] vita sopportabile», e i mezzi di sostentamento), ricordando un'avventura occorsagli all'inizio della prima guerra mondiale. 

Fatto prigioniero da una nave tedesca nell'Oceano Pacifico, dopo soli cinque giorni riesce a fuggire, portando con sé pochi viveri su di una scialuppa; vaga alla deriva nel mare finché un pomeriggio, dopo essersi addormentato, si risveglia arenato su una sorta di isola dal terreno fangoso, grigio, ricoperto di pesci morti ed in putrefazione. 

L'uomo ipotizza che la causa della comparsa della terra, che non aveva mai notato in precedenza all'orizzonte, sia l'eruzione di un vulcano sottomarino; rimane qualche tempo presso la propria imbarcazione, quindi si decide a lasciarla per esplorare il territorio circostante.

Dopo giorni di cammino arriva ad un crepaccio, al cui interno si trova acqua oceanica nella quale si specchia la Luna; sul versante opposto al suo si trova un enorme monolito decorato con bassorilievi a tema subacqueo. Mentre è teso in osservazione del monumento, la sua attenzione viene catturata da un gigantesco vortice marino dal quale, con sommo orrore dell'uomo, fuoriescono due arti titanici, seguiti da un altrettanto ciclopico corpo squamoso e viscido, ad abbracciare la pietra del monolito.

A questo punto, ridendo come un folle, e correndo ed urlando, il protagonista scappa a tutta velocità risalendo il pendio verso la propria barca, presso la quale presumibilmente sviene, dato che si risveglia in una stanza d'ospedale a San Francisco.

La narrazione prosegue tornando al tempo presente, e la conclusione si avvicina, quando l'uomo sta appuntando questo scritto sul proprio diario; alla fine sente, o crede di sentire, il grattare di un'enorme mano, probabilmente la mano di Dagon stesso, viscida, alla porta, e le ultime parole lasciate sulla carta sono queste: "Egli non mi troverà. Dio, quella mano! La finestra, la finestra!"


venerdì 8 giugno 2018

I Libri e le raccolte

Vi segnaliamo un paio di raccolte del nostro autore preferito.

Il formato cartaceo è sempre bello da avere per poter sottolineare e prendere appunti ai margini delle pagine. Risulta però parecchio ingombrante e scomodo da portare in giro. Ora che ci si appresta alla bella stagione, volendo portarsi sotto l'ombrellone tutte le opere, il formato digitale risulta essere il più comodo ed indicato.

Fateci sapere come trasccorrerete questa estate. Ecco intanto alcuni consigli per gli acquisti.




sabato 2 giugno 2012

L’orrore di Martin’s Beach (con Sonia Greene 1922)


Il racconto, narrato da un testimone, narra degli inquietanti avvenimenti avvenuti nel 1922 e sfociati nell’orrore l’8 agosto. Dopo anni tante sono le versioni con le più disparate ipotesi senza contare il tentativo da parte del prestigioso Hotel Wavecrest di mettere tutto a tacere dopo l’articolo del professor Alton intitolato “Solo gli esseri umani possono ipnotizzare?”.

Il 17 maggio l’equipaggio del peschereccio Alma di Gloucester, comandato dal capitano James P. Orne, dopo una battaglia di quasi 4 ore riusciva ad avere la meglio su una creatura marina sconosciuta. Portata a terra alcuni naturalisti di boston provvidero ad imbalsamarla. Lunga circa quindici metri e larga 3, aveva una forma cilindrica. Era un animale branchiato ma differente dai pesci per via di rudimentali zampe anteriori e piedi a sei dita, la bocca straordinaria, la pelle squamosa e un unico occhio profondamente incassato. I naturalisti affermavano inoltre che si trattava di un esemplare giovanissimo, nato da non più di qualche giorno.

Il comandante Orne allestì un piccolo museo marino su di un vascello e attraccato al molo dell’Hotel Wavecrest, nella ricca zona di Martin’s Beach, guadagnò parecchio denaro vendendo biglietti.

La mattina del 20 luglio, però, durante il temporale della notte precedente, l’imbarcazione si disancorò prendendo il largo. Dopo numerosi tentativi di recupero il capitano Orne dovette rassegnarsi alla perdita del suo museo galleggiante, della creatura imbalsamata e persino all’uomo di guardia che si trovava a bordo quella notte.

L’orrore si verificò l’8 agosto.
Era una serata tranquilla, gruppi di gente e turisti erano sparsi in spiaggia, altri provenivano dalla collina a nord, altri ancora cenavano nel patio dell’hotel. La luna quasi piena si innalzava “più di trenta centimetri” sull’orizzonte quando qualcuno credette di scorgere una decisa e minacciosa increspatura del mare avanzar verso la spiaggia per poi sparire. Ad un tratto al largo, nella foschia argentata, si alzò un urlo di morte. I due bagnini si recarono a prestare soccorso giungendo nella zona della spiaggia, dove si era già radunata una folla di curiosi. Lanciarono quindi in acqua un salvagente legato ad una corda in direzione del punto da cui era provenuto l’urlo. 

Cominciando a tirare la cima ma con sorpresa notarono che non riuscivano a smuovere l’oggetto all’atro capo: anzi scoprirono che esso li tirava con forza uguale. Chiesero allora aiuto ai più forti dei presenti. Tra di essi c’era pure il capitano Orne, il quale non poté non ipotizzare che dall’atro capo della corda ci fosse una creatura come quella che aveva catturato, per cui mettendosi a capo dell’operazione di recupero ordinò ai suoi uomini di procurarsi un’imbarcazione per arpionare e trasportare a riva la creatura mentre egli e altri uomini avrebbero tirato finché non fosse giunta l’imbarcazione.

Più di dodici uomini tiravano senza nessun risultato, al contrario questi lentamente avanzavano verso l’acqua che cominciò a lambire i loro piedi, poi le ginocchia e così via.
Orne si voltò per farsi dare il cambio quando scoprì con sgomento di non riuscire a lasciare al presa. Lo stesso accadde agli altri tiratori. Nel silenzio più assoluto, molti spettatori assistettero al lento avanzare di quegli uomini.

Spingendo lo sguardo oltre le teste l’immaginazione evocò un altro occhio, luminoso e animato da un proposito rivoltante. 

La luna fu nascosta da nuvole che accumulandosi formarono una massa minacciosa. Un tuono rombò, il boato di un lampo e subito un violento acquazzone. Molti andarono via.
Nella semioscurità gli spettatori rimasti videro le vittime che affondavano sempre più rapidamente per poi svanire in un mulinello d’acqua. 

La pioggia cessò e la luna illuminò il mare con i suoi pallidi raggi e fu allora che da profondità abbissali arrivò l’eco attutita e sinistra di una risata. 



Prima collaborazione di Lovecraft con la futura moglie

sabato 26 maggio 2012

La scomparsa di Juan Romero (16 sett 1919)


Il racconto è una confessione del protagonista nei suoi ultimi anni di vita. Egli preferire mantenere celato il suo nome e le sue origini. D'altronde egli afferma di essere emigrato negli Stati Uniti per lasciare il suo passato alle spalle. Un tempo era stato sotto le armi in India ed avendo sondato le dottrine d’Oriente si sentiva più a suo agio tra i barbuti maestri orientali che non tra i colleghi dell’esercito.

Nell’estate e nell’autunno del 1894 viveva nelle distese aride delle Cactus Mountains lavorando come semplice operaio presso la famosa miniera Norton.  Una grotta d’oro profondamente nascosta sotto un lago di montagna. Si erano scoperte altre grotte e il soprintendente, un certo signor Arthur, ipotizzava sulla probabile estensione della rete di caverne. Un esercito di miniatori lavorava notte e giorno.

Il messicano Juan Romero giunse alla miniera poco dopo il protagonista. In lui non c’era niente del conquistador castigliano o del pioniere americano ma dell’antico e nobile azteco. Il taciturno peone si alzava la mattina presto e seguiva affascinato il sorgere del sole fra le montagne tenendo le braccia tese verso l’astro come in una sorta di rito. Sporco ed ignorante proveniva da un ambiente bassissimo. Da bambino era stato trovato in una rozza capanna di montagna unico superstite d’un epidemia. I corpi dei probabili genitori erano stati spolpati dagli avvoltoi e ritrovati in una strana fenditura nella roccia poco lontana dalla capanna. In seguito una valanga distrusse ogni traccia della scena. Fu allevato da una famiglia di ladri di bestiame che gli diede il nome di Juan.

L’attaccamento che provava per il protagonista era dovuto all’antico e curioso anello indù che portava nei momenti di riposo. Il curioso messicano lo guardava affascinato. I bizzarri geroglifici che coprivano l’anello sembravano risvegliare nella sua mente qualche vago ricordo, anche se non era possibile che li avesse visti altrove.

18 e 19 ottobre 1894
Durante le operazioni di ampliamento della miniera si fecero esplodere delle cariche talmente potenti che incresparono il lago Jewel. Le indagini dimostrarono che sotto la sede dello scoppio si era aperto un abisso senza fondo. Nessuna lampada riusciva ad illuminarla e nessuna corda poteva toccarne il fondo. Gli operai si rifiutarono di lavorare in quell’ambiente. 

Alle due del mattino un coyote cominciò ad ululare. Un temporale si annunciava oltre le cime delle montagne e le nuvole dalle forme fantastiche coprivano la luna a tre quarti.
Il protagonista fu svegliato da Romero agitato.
- “Madre de Dios! … el sonido … oiga Vd! Lo oye Vd?”
Cercò di capire a cosa si riferisse e alla fine capì:
- “El ritmo … el ritmo de la tierra … Quelle pulsazioni nel terreno ”.
Gli venne in mente un brano di Joseph Glanvill citato da Poe:
“La vastità, profondità e imperscrutabilità dell’opera Sua, più profonda del pozzo di Democrito”

Romero balzò dalla cuccetta e si fermò a fissare l’anello che brillava in modo strano a ogni lampo, poi si diresse verso la miniera. I due giunsero alla miniera senza essere visti. Mentre scendevano nel pozzo il ritmo pulsante si fece articolato come un battere di tamburi e un coro di molte voci. Percorrendo sale e corridoi si accorse di poter vedere pur non avendo con se lampade e si rese conto che l’anello emanava uno strano lucore innaturale, rischiarando debolmente l’aria umida e soffocante. Una nota diversa, pazzesca, si era insinuata nella melodia. Romero cominciò a correre. Rimasto solo poteva sentirlo urlare esprimendosi in una lingua del tutto sconosciuta.. l’unica parola che riuscì a decifrare fu “Huitzilopotchli” che in seguito rintracciò nell’opera del grande storico (Prescott, Conquest of Mexico) rabbrividendo per le implicazioni che suggeriva.

Arrivato dove si apriva l’abisso, la luce dell’anello si spense mentre un’altra si accese nelle viscere della terra. Un pandemonio di fiamme ondeggianti e orrendi rumori. Prima una vaga chiazza luminosa poi dalla confusione cominciarono a staccarsi delle sagome tra le quali vide … Romero. Svenne.

Si risvegliò nella sua branda all’alba. A pochi metri da lui il cadavere di Juan Romero steso su un tavolo circondato da un gruppo di uomini. La morte fu attribuita al lampo che aveva compito e fatto tremare le montagne. Il temporale aveva generato una valanga che aveva richiuso la voragine. In seguito tentarono di scavare per riaprirla senza alcun esito per cui infine abbandonarono il progetto.
Il suo anello era spiegabilmente sparito e non fu più ritrovato.

Ormai dopo anni … “ritengo che si sia trattato di un sogno e niente più … ma a volte in autunno sento il maledetto pulsare della terra … allora ho la certezza che la scomparsa di Juan Romero sia stata, in realtà, una fine atroce”.



domenica 6 maggio 2012

I gatti di Ulthar (15-06-1920)


L’Egitto è depositario di racconti che risalgono alle città dimenticate di Meroe e Ophir, dei segreti dell’Africa oscura e misteriosa.

Ad Ulthar, città oltre il fiume Skai vivevano un vecchio contadino e sua moglie che si divertivano ad intrappolare ed uccidere i gatti che osavano entrare nella loro proprietà. La loro casa sorgeva all’ombra dei rami di vecchie querce che sbucavano dal retro di un cortile dimenticato da tempo.
Gli abitanti pur sospettando della coppia non aveva prove certe per accusarli e nessuno osava rivolgere loro la parola.  Sta di fatto che ogni volta che un gattino si dirigesse verso la capanna sotto le querce nere, dopo il tramonto si sentivano certi lamenti, e dell’animale non se ne sapeva più nulla.

Un giorno giunse in città una carovana di nomadi diversi da tutti gli altri che erano passati di li. Essi, in cambio di pezzi d’argenti, leggevano il futuro e compravano perline colorate nelle botteghe. I loro carri erano decorati con effigi misteriose col corpo umano e teste di gatti, falchi, arieti e leoni, ed il loro capo indossava un copricapo con due corni e un curioso disco in mezzo. 

Tra i nomadi faceva parte un ragazzo di nome Menes, senza genitori, molto malato il cui unico conforto era un piccolo gattino nero. Quando una notte l’animale sparì, il ragazzo cominciò a piangere e i cittadini gli raccontarono dell’inquietante coppia. Allora questi rivolgendosi al cielo cominciò ad intonare una misteriosa preghiera. Le nuvole assunsero strane forme: figure esotiche fatte d’ombra di creature ibride sormontate da corni con un disco in mezzo.

La stesa notte la carovana ripartì. Mentre la gente scoprì con sorpresa che tutti i gatti della città erano spariti. Qualcuno affermava di averli visti dirigersi verso la capanna dei due anziati (Atal figlio del locandiere), altri come il vecchio Kranon affermava che erano stati i nomadi a rubarli. 

L’indomani tutti i gatti fecero ritorno alla proprie abitazioni. Avevano un aspetto magnifico e sembravano ingrassati, tanto da rifiutare il cibo che gli veniva offerto.

Passata una settimana, i cittadini di Ulthar si accorsero che dalla vecchia capanna non filtrava luce, e il magro Nith osservò che nessuno aveva più visto i due vecchi. Anche se con riluttanza fu organizzata una spedizione capitanata dal borgomastro assieme al fabbro Shang e il tagliapietre Thul. Dopo aver abbattuto la porticina trovarono due scheletri perfettamente ripuliti accanto al camino e per terra una gran numero di grossi scarafaggi. 

Tra i notabili ci furono numerose discussioni. Zath il medico parlò a lungo con il primo notaio Nith e gli altri, e alla fine approvarono la famosa legge di cui raccontano i mercanti di Hatheg e su cui discutoni i viaggiatori a Nir: che a Ulthar nessuno può uccidere un gatto.



Lovecraft aveva una grande passione per i gatti. Ne ebbe uno che si chiamava Nigger-Man.